L’uso della catena, compromette la libertà di movimento degli animali con grave danno per la loro salute psicofisica.
La più grande sofferenza è la mancanza di socialità che tale detenzione comporta. Jeffrey Masson, autore di importanti libri sugli animali, definisce la solitudine “la grande paura del cane”. Il cane è, infatti, un animale altamente sociale e si realizza pienamente solo quando è parte di un gruppo. Ma legato alla catena ne è escluso e costretto a una vita innaturale. Vede e sente il mondo intorno a lui, ma non può interagire con esso, né esprimere la sua relazionalità e socievolezza.
Lo stato di malessere è evidente e si può misurare considerando quanto siano negate le 5 libertà fondamentali formulate da Brambell di cui tutti gli animali devono godere: la libertà dalla paura e dal disagio, la libertà di manifestare le caratteristiche specifiche, la libertà dal dolore, dalle ferite e dalle malattie, la libertà dalla fame dalla sete e dalla cattiva nutrizione e la libertà di avere un ambiente fisico adeguato.
E nonostante ciò la detenzione a catena è purtroppo ancora “prassi” e prassi normata, anche se in palese contrasto con l’art. 727 del Codice penale che vieta di detenere gli animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze e con l’articolo 544- ter della legge 189 del 2004 contro il maltrattamento degli animali che punisce “chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche ”.
Secondo la giurisprudenza prevalente, la condotta concretante il maltrattamento non deve, infatti, necessariamente esprimere un sotteso truce compiacimento di infierire sull’animale né si richiede che da tale condotta siano scaturite lesioni alla sua integrità fisica, potendo la sofferenza consistere in soli patimenti. Cassazione Penale – Sezione III – Sentenza del 20 dicembre 2002 n. 43230 – Pres. Postiglione – Est. Vitalone – P.M. Danesi (diff.) Ric. P.M. in proc. Lentini).
E molto importante sul tema è anche la Sentenza della Suprema Corte del giugno 2011 che ha confermato la multa di 5mila euro inflitta dal Tribunale di Mondovì (Cuneo) per il reato di cui all’art 544 ter c.p. ad un uomo che deteneva i suoi tre cani legati con una catena.
Con questa sentenza la Corte conferma ancora una volta che il concetto di necessità, idoneo a scriminare la condotta altrimenti penalmente rilevante, non può in alcun modo ravvisarsi in situazioni di comodità e opportunità, anche, come caso nel caso in cui il custode degli animali versi in difficili condizioni di salute, avendo comunque egli l’obbligo giuridico,oltre che etico e morale, di garantire la salute e il benessere dei propri animali.
La detenzione a catena è inoltre molto pericolosa, a titolo esemplificativo ricordo la morte di un cane avvenuta proprio in Emilia Romagna. I fatti risalgono al dicembre del 2009 quando una donna che si era recata sul fiume Secchia per controllare lo stato degli argini dopo la piena dei giorni precedenti, aveva notato il corpo senza vita di un cane, ancora legato alla catena. A seguito di questo tragico evento il Tribunale di Modena (la LAV si era costituita parte civile) ha condannato un uomo di 77 anni per maltrattamento animali aggravato dalla morte, ai sensi dell’art. 544-ter del Codice penale. Altro caso che merita di essere citato risale allo scorso anno quando un cane è morto dopo giorni bloccato con la catena all’interno di una recinzione senza nulla da mangiare e da bere. Il cane, dopo essere salito sulla tettoia del suo riparo, probabilmente cercando di scavalcare più volte la recinzione, si sia impigliato aggrovigliando la catena nel telo ombreggiante e nella la recinzione, fino ad immobilizzarlo totalmente in posizione semi-alzata. La morte sarebbe sopraggiunta dopo circa due giorni per disidratazione. Il cane non era in grado né di muoversi, né di abbaiare visto che la catena era talmente tesa da non consentirgli alcuna azione.
L’uso della catena inoltre sviluppa l’aggressività ed è capace di provocare danni irreparabili nel carattere.
Se legato, il cane non migliora la sua capacità di fare la guardia (uno dei principali motivi per cui soprattutto nelle aree rurale si usa la catena), ma al contrario può diventare pericoloso, non solo per gli estranei ma anche per la persona o le persone che abitualmente interagiscono con lui. Viene, infatti, completamente alterato il suo equilibrio e il suo senso della proprietà per cui, incapace di riconoscere l’amico del nemico, pensa solo a difendere il poco spazio che ha a disposizione.
La catena riduce infatti la cosiddetta “distanza critica”, uno spazio vitale superato il quale il cane si sente talmente minacciato da attaccare senza esitazione.
Dal punto di vista psicologico, non dovrebbe essere difficile comprendere le sofferenze che un cane subisce quando viene legato. Vive in uno stato di privazione. Gli è impossibile, per esempio, soddisfare le esigenze del suo olfatto e la sua necessità di esplorazione e interazione. Gli odori, fondamentali per un cane, che si trovano nello spazio a sua disposizione con il tempo diventano talmente familiari da perdere qualsiasi interesse. Privato così di una delle parti più importante del suo modo di capire e relazionarsi con il mondo il cane è costretto a una condizione di vita innaturale.
Ci sono dunque validissimi motivi etologici, di benessere animale e di sicurezza pubblica ma anche giurisprudenziali per abolire l’uso della catena facendo sì che la Regione Emilia Romagna compia un gesto di civiltà voluto dalle Associazione animaliste e da tanti privati cittadini che tutta Italia saprà certamente apprezzare e che potrà essere di prezioso esempio anche in altre Regioni.
Ilaria Innocenti
Responsabile nazionale LAV settore cani e gatti
www.lav.it
Questo intervento può essere ripreso citando l’autore, la sua qualifica e il sito www.lav.it
|