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Purtroppo non sono la persona che vorrei essere. Ho dei difetti che vorrei non avere: uno di questi e’ l’essere vulnerabile a quel trabiccolo infernale che e’ Facebook, altresi’ noto come “flagello della produttivita'”. Ma come dice il vecchio adagio, “non tutti il male vien per nuocere”. Si’, perche’ Facebook si presenta come una piattaforma sociale che non ha precedenti nel passato: esso amplifica a dismisura taluni atteggiamenti naturalmente presenti nel carattere umano e li rende esponenzialmente piu’ facili da riconosciere e studiare per chi, come me, cerca di capire il perche’ di taluni comportamenti dell’animale uomo. Ovviamente va da se che non posso garantire per la bonta’ delle mie conclusioni, in quanto si basano su delle semplici conclusioni e congetture: non mi sogno nemmeno di spacciarle per un bona-fide studio sociologico. Tuttavia sarei genuinamente sorpreso di trovarmi nel torto in merito a cio’ che intendo quivi esporre.

Dunque, la tesi e’ questa: con certa gente e’ meglio non discutere. Bella forza, direte voi. “Ha scoperto l’acqua calda”, penseranno alcuni, forse non a torto. Ma quello che ritengo essere sufficientemente interessante da essere condiviso sono le ragioni che giustificano tale affermazione.

Punto primo: non e’ necessario convincere tutti, e non e’ nemmeno possibile. L’etica non e’ scienza, e non e’ soggetta ad esperimenti che la validano o meno. Quello che l’etica e’, tuttavia, e’ logica: ma per costruire un’etica bisogna partire da alcuni punti iniziali, che a volte non sono condivisi dal prossimo. Questo assumendo che il nostro interlocutore agisca secondo un’etica ben definita e strutturalmente sana: cio’ e’ molto raro. Nonostante questo, moltissime persone, la maggioranza oserei dire, sono naturalmente vicine al punto di vista veg: una persona normale sara’ disgustata dal sangue, nauseata dalla violenza, e turbata da una palese ingiustizia. Cio’ che le impedisce di AGIRE secondo una logica antispecista sono altri fattori, estranei all’etica e legati piuttosto ad altri ambienti, come la socialita’, la paura, e la resistenza al cambiamento. Se una persona esordisce con “la legge del piu’ forte” i casi sono due: o ci crede veramente, ed e’ tempo perso parlarci, oppure sta tentando di spacciarsi per cinico in una societa’ che vede il cinismo come un sinonimo di anticonformismo, e quindi di “genialita’ incompresa”. Anche con questo genere di persona e’ piuttosto inutile discutere, in quanto non si farebbe altro che complimentare la sua richiesta di attenzione, e per lui tale discussione non sarebbe altro che un’ennesima occasione per mettere in mostra il suo lato “speciale”, di persona che si pone oltre ai buonismi, eccetera.

Punto secondo: il punto secondo e’ che gran parte della discussione fra i due gruppi (in questo caso ho in mente il dibatto pro/antivivisezione) puo’ essere inquadrata secondo un punto di vista puramente tribale. Si e’ arrivati al punto che la disputa si porta avanti principalmente per mezzo di insulti ad-personam, ridicolizzazioni e demonizzazione della fazione opposta. Badate, questi sono comportamenti non esclusivi dei pro-vivisezione. E’ diventato il classico scontro bianchi contro neri: un’ennesima forma di hooliganismo imperante. Chi si esalta come nemico della violenza minaccia, chi si e’ autodichiarato paladino della razionalita’ utilizza sillogismi che farebbero inorridire uno studente delle scuole medie: questo perche’ e’ natura umana riunirsi sotto bandiere e guerreggiare contro la tribu’ piu’ vicina. Non possiamo permetterci di perderci in simili comportamenti: rischiamo di diventare una sorta di culto come ce ne sono tanti e di perdere rilevanza.

Credere che la vivisezione (o sperimentazione animale che dir si voglia) non rende automaticamente la persona in questione un minorato mentale, un mostro o un vigliacco. Ci sono delle ragioni per argomentare che la vivisezione sia cosa buona e giusta: ovviamente io ritengo con la massima convinzione che esse siano sbagliate e presentino svariate fallacie, ma questo non significa che esse siano evidenti e che il non riconoscerle sia dimostrazione di malafede. Similmente, e’ difficile che alcune persone ascoltino cio’ che il movimento anti-vivisezione ha da dire se esso si presenta tramite insulti ed epiteti ridicolizzanti.

La questione “tribale” presenta inoltre un’altra sfacettatura pericolosa: noto che tale tratto caratteriale si mostra in una difficolta’ dal dissociarsi con persone che riteniamo essere “dalla nostra parte“. A volte si giunge a delle conclusioni esatte tramite ragionamenti errati, o in alternativa sebbene essi condividano molte delle nostre idee divergono in maniera dirompente su altri fronti. Tuttavia ci risulta difficile condannarli o mostrare disaccordo con loro in quanto ci sembra che fare cio’ sarebbe un’ammissione di debolezza da parte del movimento. Questo e’ di certo vero in tali frangenti in cui le differenze di opinioni sono minime e trascurabili, ma e’ difficilmente giustificabile in altre situazioni. Per fare un esempio, un’iperbole se vogliamo, si potrebbe immaginare un sedicente animalista che propone di utilizzare “gli zingari e i rom” al posto degli animali nella pratica scientifica.

A volte e’ necessario disassociarsi da alcuni elementi e’ cio’ che voglio dire: questa non e’ una concessione che facciamo alla “fazione opposta” (sebbene anche il solo ragionare in termini di fazioni e’ errato), ma mostra piuttosto ad un supposto osservatore esterno che il movimento e’ formato da persone con opinioni differenti e spesso ragionevoli, nonostante alcuni notevoli controesempi.

Legato al punto secondo e’ la necessita’ di discorrere individualmente con chi vogliamo convincere: fare cio’ in un ambiente “di gruppo” (che sia il vostro o il loro) come pagine di Facebook o anche comitive nella vita reale difficilmente avra’ un effetto ottimale, visto che si inseriranno dinamiche di gruppo e l’impossibilita’ di portare avanti un discorso lineare quando piu’ voci si sommano. Come si usa dire, “troppi cuochi spillano il brodo”.

Punto terzo: e’ necessario riconoscere che e’ un caso piu’ unico che raro quello in cui una persona concede al proprio interlocutore la vittoria nel caso si stia disquisendo su questioni importanti. Il piu’ delle volte la discussione degenera e si arena su alcuni punti ripetuti all’infinito. E va bene cosi’: se vogliamo davvero cambiare le persone, non dobbiamo impuntarci sull’averla vinta ad ogni costo. Quello che dobbiamo fare e’ impostare un discorso serio e ragionato, e scostare di lato cio’ che non e’ rilevante o pertinente. Se facciamo bene il nostro lavoro il risultato non sara’ quasi mai la conversione istantanea del nostro interlocutore, ma piuttosto la semina del dubbio, che si evolvera’ indipendentemente nel tempo e forse portera’ dei buoni frutti. La natura competitiva di una discussione rende molto difficile l’ammettere di aver torto, e molti di noi si arrampicherebbero sui vetri pur di non gettare la spugna: questo non toglie che, una volta eliminato il fattore sconfitta (e possibile umiliazione), e’ facile tornare sulle parole dette e ricevute e trarne conclusioni differenti.

Insomma, con certa gente e’ meglio non discutere, con altra e’ meglio non discutere ad oltranza: e’ importante capire quando si puo’ porre la parola fine.

Luca Menghini

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