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Questo e’ l’ennesimo articolo pieno di quelle che dovrebbero essere ovvieta’ ma, per un motivo o per l’altro, sembrano essere non essere troppo ovvie ai piu’.

E come tutte le cose estremamente ovvie, provare a spiegarle a qualcuno che ne nega la verita’ puo’ risultare un processo convoluto e alieno, poiche’ si deve partire dalle fondamenta per arrivare a costruire un’argomentazione inconfutabile.

L’ovvieta’ in questione e’ la seguente: non esiste la cosidetta “carne felice”, un abuso e’ un abuso anche se lo si colora con i colori dell’arcobaleno e lo si chiama con un altro nome. I compromessi sono una cosa bella che ci permette di vivere insieme agli altri: non per questo bisogna accettarli in tutte le situazioni e in ogni circostanza. Soprattutto quando si parla di questioni di vita o di morte.

Chi supporta forme di tortura piu’ “leggere” di altre a volte ha le migliori intenzioni. Magari non crede che l’abolizione della tortura sia possibile, e quindi tenta di trovarne una forma meno atroce. Magari crede che meno tortura sia comunque qualcosa di positivo, che si tratti di un passo in direzione di un mondo senza quel genere di trattamenti. In particolare chi ha gia’ scelto una forma di alimentazione vegana ma si batte per forme di allevamento piu’ “umane” potrebbe ritenere cio’ il meglio che si possa fare in una situazione simile.

Non credo assolutamente che questo sia il caso, e voglio spiegare in maniera chiara il perche’: discorrere di quanti centimetri cubi siano accettabili quando si parla delle dimensioni della gabbia di una gallina ovaiola lascia intendere in maniera piuttosto forte che la gallina nella gabbia ci debba stare. Propongo un’analogia: quanti secondi ci mettereste a chiamare la polizia se qualcuno vi si avvicinasse e iniziasse a discorrere di quale sia un’eta’ accettabile per un bambino per partecipare in un film a luci rosse? Forse 5 anni e’ troppo giovane, aspettiamo i 6?

Tutto questo mercanteggiare sulle condizioni di vita degli animali presuppone un’accettazione, forse per rassegnazione o forse per altro, del fatto che la loro esistenza sia strumentale all’animale umano. E i cambiamenti raramente si ottengono con la rassegnazione e con la conformazione al sentito comune. Dobbiamo ora piu’ che mai essere decisi nel nostro rifiuto all’attribuire una dignita’ dipendente dalla specie di appartenenza agli esseri viventi. Perche’ quello a cui miriamo non e’ una macellazione in cui l’animale viene prima adeguatamente stordito, ma NESSUNA macellazione. E le due cose non si trovano nella stessa direzione, in nessun modo. Nella prima non vi e’ alcuna menzione della rinuncia a certi “generi alimentari”, come la societa’ vuole che li chiamiamo, che ad essere brutali ed onesti risultano cari ad una buona parte della popolazione. E avendo gabbie piu’ grandi per le galline le loro uova sarebbero ancora sulla tavola di tutti o quasi: in quale modo questo dovrebbe convincerli a farne a meno?

Anzi, questo placherebbe gli spiriti di molti, che si sentirebbero dei padroni caritatevoli e misericordiosi nei confronti degli animali inferiori. La carne felice non e’ altro che una frottola, un narcotico che vuole placare l’irritazione di una coscienza che a volte, seppur addormentata, ancora si agita nel sonno. Perche’ anche quando si parla dell’olocausto di miliardi l’uomo pensa solo al proprio, di disagio.

Non me ne vogliano a male le grandi associazioni, che so bene essere piene di antispecisti convinti e onesti: non credo che siano dei mostri ingannatori che fanno solo i loro interessi. Ma credo in tutta onesta’ che siano in errore, e che tale errore venga in gran parte dall’esasperazione oltre che dalla rassegnazione. Vogliamo fare qualcosa, non ce la sentiamo di stare con le mani in mano. Non possiamo aprire gli allevamenti e far uscire tutti i loro prigionieri: la legge non ce lo permette. E quindi finiamo per fare quello che crediamo essere tutto cio’ che ci e’ concesso fare: ma io credo che in questo senso ci stiamo remando contro.

Certo, non nego che per un animale possa esserci una differenza fra una forma di tortura e un’altra. Ma se scegliendo la forma meno cruenta stessimo condannando tutti i suoi discendenti ad un simile fato, faremmo ancora la stessa scelta? Ma fare una simile “aritmetica della sofferenza” e’ qualcosa che non ci compete come meri mortali limitati dalle proprie esperienze personali, in alcun modo rapportabili con quelle di un animale da allevamento: tuttavia l’unico futuro in cui non siamo chiamati a fare simili decisioni e’ quello che solo un rifiuto senza se e senza ma puo’ portare. Altrimenti saremo sempre chiamati a dover scegliere una o l’altra forma di violenza.

A volte un rifiuto netto e’ meno efficace nell’immediato, ma puo’ portare a risultati piu’ significativi nel futuro: sicuramente a piccoli passi non si arriva da nessuna parte, perche’ la destinazione che ci siamo prefissati non e’ raggiungibile in tale maniera. Ma vi sono anche dei segnali positivi se uno vuole coglierli: di certo la popolazione vegana e’ in aumento oserei dire esponenziale, almeno nei cosidetti primo e secondo mondo. E molti di costoro sono decisi nel loro rifiuto di qualsiasi forma di abuso e di dominio sul prossimo: il reale pericolo ora e’ che si perda di vista in che cosa consista un “abuso”.

Luca Menghini

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