C’e’ chi crede, come me, che certe esperienze non possano semplicemente venire comprese se non avendole vissute. Al contempo, tuttavia, il nostro naturale senso di empatia, che risulta essere fondamentale per poter formulare un qualsiasi pensiero non nichilista, richiede un certo grado di immedesimazione nel nostro prossimo. In parole povere, come possiamo noi affermare che massacrare e torturare un animale sia sbagliato, se prima non ci poniamo il problema di che cosa l’animale prova, e quale sia la natura di tale esperienza per lui?
Ma, per l’uomo comune, il venire macellato non e’ un’esperienza vissuta: non possiamo rapportarci direttamente con lui e stabilire delle analogie, perche’ cio’ che lui subisce ci e’ alieno e lontano, per nostra fortuna e sua sciagura. Ma, nonostante questa banalissima considerazione rimane da accettare che, per comprendere il perche’ noi ritieniamo tale azione un crimine, dobbiamo perlomeno provare a vederlo con gli occhi della vittima.
Ora, tutti noi, chi piu’ e chi meno, abbiamo una certa familiarita’ con il dolore fisico: ossa rotte, ferite da taglio, malesseri e malattie sono inconvenienti che incontriamo con regolarita’ durante lo svolgimento della nostra vita. Il dolore e’ di certo definibile come non piacevole, indesiderato, problematico.
Ma quando e’ da considerarsi una vera e propria afflizione, una fonte di sofferenza? Di certo non ci definiremmo sofferenti quando ci tagliamo il pollice con il coltello del pane, oppure quando cadiamo sull’asfalto e riportiamo un’abrasione. Per alcuni, persino, sofferente potrebbe essere un termine eccessivo anche nel caso di un osso rotto.
Ora, ogni qual volta il nostro corpo si danneggia, ci viene naturale constatare l’entita del danno tastando con le mani, osservando la ferita e tentando di stimare il danno ricevuto: e’ provato che portare le mani su di una ferita lieve ne riduce il dolore, perche’ stiamo rassicurandoci che non e’ nulla.
Ovvia conseguenza di tale considerazione e’ che parte del dolore e’ psicologico, ed e’ dovuta al cosidetto “orrore istintivo” che ci sovviene nel vederci mutilati: immaginate di cadere dalle scale, e poi vedere la tibia rotta che protende dalla gamba, fuoriuscendo dal muscolo. Ora, la maggior parte di noi si metterebbe giustamente ad urlare: ma per cosa, per il dolore, per il semplice stimolo di disagio, o per la realizzazione di cio’ che ci e’ successo?
Vogliamo provare ad immaginare, per un minuto, che cosa puo’ provare uno qualsiasi degli “animali da reddito”, durante la sua macellazione? Proviamo davvero ad immedesimarci, a metterci al suo posto: vorrei davvero che qua il lettore facesse lo sforzo immaginativo e provasse a capire, senza tuttavia riuscirci, che cosa puo’ significare una morte del genere.
Per comprendere che cosa prova un animale durante il suo macellamento, bisognerebbe capire che cosa significa essere allo stremo delle proprie forza, in balia alla fame e alla sete, e sentire l’odore del sangue dei propri simili.
Bisognerebbe capire che cosa significa vedere tutte le vie di fuga sbarrate, e sentire la paura dei propri compagni e cedere all’isterismo collettivo.
Bisognerebbe capire che cosa significa venire appesi per le gambe, e poi sentire un coltello di freddo acciaio che penetra nella trachea, e sentire, comprendere, che si sta morendo e che la propria vita sta per finire. Fermiatevi un secondo ad immaginarlo: venire accoltelati senza potersi difendere, intrappolati, inermi, incapaci di muovere braccia e gambe. Impossibile evitarlo, si puo’ essere solo testimoni del proprio assassinio.
E nonostante tutto questo, quella madre matrigna malvagia chiamata evoluzione non ti lascia il triste conforto nella rassegnazione, perche’ la nostra esistenza ha la sola ragione di sopravvivere. L’animale ancora scalcia quando muore, come se i suoi deboli movimenti possano dissuadere i loro aguzzini.
Nel momento della morte, sono costretti a combattere una battaglia persa e non gli viene concesso il diritto di arrendersi: i loro ultimi momenti e’ qualcosa che noi non possiamo comprendere, eppure l’orrore lo si puo’ percepire con la coda nell’occhio, negli angoli del nostro cervello. Non se ne puo’ valutare l’immensita’, ma se ci si ferma un momento ad immaginare, si comprende che qualcosa di piu’ terribile non esiste.
Chi dice che l’animale non comprende, non capisce di essere in punto di morte, sottovaluta in maniera estremamente ingenua il processo evolutivo.
Nessuna creature esiste senza l’istinto primario, quello di autoconservazione. E quando questo viene negato, la sofferenza e’ atroce, piu’ atroce di quanto si possa immaginare. Chi ha passato lunghi periodi di digiuno o ha rischiato di annegare puo’ avere un’idea di che cosa significhi: il nostro stesso cervello, in uno sforzo estremo per tenerci vivi, inizia a pungolarci dolorosamente, incitandoci ad una qualsiasi azione estrema, non importa cosa, pur di sopravvivere.
E l’animale vede, l’animale annusa, l’animale sente: sente i suoi simili morire e sa che questo e’ il destino che gli attende, Morire sapendo di morire, la morte piu’ terribile, e’ quello che l’attende.
La morte ci accumuna, e non esiste grande separazione mentale da come le varie specie affrontano tale momento: in fondo, se il nostro comune scopo e’ vivere, ha solo senso che il processo attraverso il quale evitiamo il fallimento sia lo stesso.
Come si puo’ dunque scaricare un simile fardello esistenziale, l’abisso dal quale siamo tutti cotanto terrorizzati, sulle loro spalle, affinche’ noi si possa assaporarne le carni? La futilita’ messa di fronte all’oltraggio piu’ grave in qualche modo vince, e nessuno mette in dubbio che non debba essere cosi’.
Come si puo’ commentare tale situazione? Non vi e’ nulla da dire che renderebbe giustizia: quello che si deve fare, subito e ora pero’, e’ rifiutare ogni genere di complicita’ con tale comportamento, adottando uno stile di vita vegan. Senza aspettare un domani, perche’ queste cose accadono ogni giorno.
Luca Menghini